Breve storia del mio filosofo politico di riferimento


Ho questa mountain bike con il telaio a fasce sfumate fucsia, gialle e verdi fluorescenti. Sul pignone posteriore mio padre ha fissato una lunga antenna flessibile in cima alla quale sventola una bandierina triangolare rossa: credo abbia qualche scopo aerodinamico. Pedalo più veloce che posso, ogni tanto giro la testa e controllo quanto riesco a farla sventolare.

È una sera d’estate, è il tramonto tra i vialetti di un campeggio di Sirmione, sul lago di Garda, sono in vacanza con la mia famiglia. Ricordo quel campeggio come uno sconfinato labirinto di vialetti identici. Una traccia grigio chiaro da seguire in un pattern seriale fatto di praticelli inglesi verdi, pini marittimi che sul lago Maggiore - il mio - non ci sono, bungalow, tende, camper, parchi giochi e persone ozianti o impegnate nella lettura dei loro libri sedute fuori. Pochi italiani, alcuni francesi, alcuni belga, o olandesi, molti tedeschi. Una ripetizione senza soluzione di continuità. Tra questi vialetti un giovanissimo me pedala impazzito, avanti e indietro, non ricordo se con degli amici o solo. Ho probabilmente sette anni.

Pedalo veloce. Giù fino al parco giochi, poi su verso le tende, giro per la zona camper, indietro tutta fino ai campi da tennis, di nuovo verso le tende, svolto per il bungalow dei miei genitori, dove mi aspettavano per cena: sbaglio.

Non è il bungalow dei miei. Inchiodo. Poso i piedi a terra. Alzo la testa.

É panico.

Sono tedeschi.

Sono una famiglia tedesca. Sono seduti, hanno ciabatte e costumi da bagno ancora addosso, hanno carte da gioco in mano, bicchieri o tazze sul tavolo. Mi sorridono. Mi parlano. In tedesco.

É panico.

Devo andarmene. Mi sono ficcato nelle loro mani, da solo, come uno stupido.

Sento il fiato mancarmi, vedo la madre di questa famiglia alzarsi, parlarmi dolcemente e venire vero di me per aiutarmi.

É finita. Vuole fregarmi. Io cerco di prendere la bici e svignarmela ma il panico mi impaccia.

Sono in pericolo. Ora mi fucileranno. Mi fucileranno!

Hanno fucilato il nonno.

Sanno chi sono! Hanno fucilato lui e ora tocca a me!

***


É così che ho sempre percepito quella parte di storia. Inciampandoci nei solchi che aveva lasciato in casa mia, nella mia famiglia, ancora prima di affrontarla a scuola. Non perché discendessi da Gramsci, piuttosto perché ritrovavo sui libri le lacrime di chi mi aveva cresciuto.

Ma c’è una bugia. La Flora mi mentì, per molti anni. Non mi è ancora chiaro per quale scopo mi avesse detto una bugia tanto significativa. Non capisco da cosa mi stesse proteggendo. Quando le chiedo spiegazioni, oggi che ho una visione ben più chiara della questione, nega o non se ne ricorda.

É la sera del 12 settembre 1944. Appena due giorni fa sulle montagne piemontesi - dove quando non ci sono pandemie in corso passo weekend di trekking con gli amici - viene dichiarata l’indipendenza della Repubblica Partigiana dell’Ossola. Da questo lato del lago, a Capronno di Angera, Flora Dalla Costa torna dal recinto dei maiali che era solita nutrire quotidianamente, entra in casa e apprende dal padre che dovrà passare la seconda notte consecutiva all’aperto, insieme al fratello e alle cinque sorelle. Aveva scavato una grande buca nel bosco, saltuariamente alla famiglia toccava di doverci dormire dentro. Perché? Per nascondersi da chi? Per proteggersi da quali insidie? Alla Flora, quarta di otto e ben più alta della media dei suoi coetanei, non era dato sapere. Troppo giovane per capire o forse per mantenere un segreto. O forse era meglio che non imparasse a concepire ciò di cui è capace ciò che gli adulti avevano già conosciuto bene.

Fu un’innocenza che durò poco. La mattina seguente il corpo di Antonio Dalla Costa, mio bisnonno materno, cattolico emigrante veneto che da Feltre si trasferì in piena guerra sulla costa lombarda del lago Maggiore a lavorare presso la stalla di un padrone venale, giace a terra nel fango, esattamente di fronte alla porta di casa. Ha un buco nel petto. Germana, la moglie, alza la testa di fronte nell’aria del mattino sporca di umido e sangue e interpella gli assassini: “vigliacchi! Avete ammazzato un padre di famiglia innocente!”

"I tedeschi, i tedeschi!” mi diceva mentre ingurgitavo quintali di Ovomaltina con l’uovo sbattuto davanti ai cartoni Rai. Passavo i pomeriggi con lei, dopo l’asilo e più tardi dopo la scuola. Li temevo, i tedeschi. Li sognavo la notte. Credevo ce ne fossero nella mia stanza, negli angoli bui di casa la sera. I tedeschi erano il mio uomo nero. I tedeschi per me erano demoni, non uomini. “I tedeschi vennero una sera, ubriachi, era sotto Natale. Volevano da mangiare, volevano della carne e del vino da bere. Avevamo pochissimo per noi ma non abbiamo mai rifiutato di aiutare chi avesse fame. Ospitavamo soldati e gente di tutti i tipi nel fienile, mi ricordo una volta un polacco ferito, che era un bravissimo architetto. Quella sera però non avevamo nulla e piuttosto che andare via a mani vuote distrussero il solo lusso che ci eravamo concessi. Il solo addobbo natalizio: un ramo secco con appesi alcuni mandarini, che avremmo finalmente mangiato a Natale. Ci saltarono sopra con gli stivali e tutto, finché di quella ironica rappresentazione di un albero di natale non ne rimase che polpa schiacciata sul pavimento e sulle suole e pezzetti di legno vecchio. Poi se ne andarono cantando a squarcia gola sul sidecar.”

Ma l’omicidio di Antonio non c’entra con i tedeschi. Niente svastiche né sidecar. Antonio venne fucilato da italiani. Furono fascisti, militi della Repubblica di Salò impegnati in un rastrellamento, a sparargli nel petto sull’uscio di casa, senza processo e senza preghiere. Cercavano i partigiani saliti in Ossola. Non sappiamo quali fossero i contatti con i gruppi partigiani locali, sappiamo però il prezzo pagato: Antonio fucilato, il suo primogenito Guido arrestato e portato a Varese.

Mungere qualche goccia di latte in bocca alla sorella, che stava sdraiata sotto la vacca, sull'erba, fingendo di mancare il secchio, quando il padrone non vedeva. Tuffarsi carponi nell’ovile, rischiando la vita per fottere qualche patata ai maiali, quando il padrone non vedeva. Fame e paura. Mia nonna soffre nel ricordare, ma non può esimersi dal farlo. Rendermi testimone, rendermi cosciente. Sperare che uno straccio di coscienza cammini sulle mie gambe, sulle gambe dei figli miei (che non ho, ma insomma ci capiamo) e così via, nella speranza che quella sofferenza non sia vana.

Mi rispiega del corpo lasciato tre giorni e tre notti nel fango, coperto da un lenzuolo, perché il prefetto venisse a fare le sue valutazioni, perché l’omicidio venisse certificato e chissà, un giorno si avrebbe avuta giustizia. Ma il prefetto aveva altre preoccupazioni. La storia aveva altre urgenze e nella foga di lasciarsi il buio alle spalle ci siamo scordati di processi come questo.

Sette mesi e dodici giorni dopo quella notte, è il 25 aprile 1945. L’Italia è libera, i partigiani scendono in città, si cantano canzoni, si sventolano tricolori con la stella del CLN cucita al centro. La Flora si affaccia a questo mondo nuovo, le riesce una gioia speranzosa ma non scevra di angoscia e d'infinita tristezza. Non esiste tricolore, papavero, bella ciao o carro partigiano che restituisca a lei e ai suoi sette fratelli un padre, un marito a Germana in evidente stato confusionario, e calmi i suoi attacchi di panico ogni volta che scende la sera. Il 25 aprile 1945 nella cascina di Capronno, l’Italia dei Dalla Costa è libera nella fame e nell’affanno.

Quarta di otto, alla Flora tocca di lasciare la scuola durante la terza elementare e diventare madre dei fratelli minori, il più piccolo è Renzo, di pochi mesi. Perché la madre e i fratelli maggiori potessero andare altrove a lavorare. Tocca presto anche a lei andarsene, a nove, dieci anni è “donna di servizio” di una famiglia di Brera i cui figli - di molto più grandi di lei - passano le giornate a studiare e oziare. Quando le dico che vivo a Milano, non se ne capacita. Mi spiega degli attacchi respiratori che la tenevano ostaggio di notte. Dice che era lo smog che la rendevano così asmatica, lei cresciuta in campagna. Per carità, non che l’inquinamento milanese mi lasci indifferente, ma credo quell’asma avesse una ragione ben più ansiogena che ambientale. Viene presto il tempo della fabbrica, lavora trent’anni in filanda con macchinari che le lasciano problemi di salute, il resto della storia la conoscete: dopoguerra di povertà e costruzione del proprio avvenire a mani nude. L’otto gennaio 1963 viene al mondo una figlia del boom economico, che studierà più di lei e venticinque anni più tardi chi scrive in questo blog. Il tempo passa e vengono aggiunti elettrodomestici alla quotidianità, un mattone sopra l’altro ed ecco una bifamiliare con un’utilitaria italiana in garage e un televisore sul mobile della cucina dentro al quale Mike Bongiorno regala cascate di soldi a chi risolve il rebus; il 25 aprile 2017 viene intestata una via ad Antonio, nei pressi della cascina di Capronno e una targa nel centro di Angera, con il suo nome. Il resto della storia lo conoscete.

***


Sono adolescente. Lentamente sto prendendo coscienza di come andarono le cose, capisco da quale parte sedermi, quale immaginario sposare. Si sa, essere radicali è una questione di sopravvivenza nei corridoi di un istituto tecnico. Indosso baggy jeans e ho Nas nelle orecchie. Ho un istinto polemico verso qualsiasi forma di vita, in oratorio provoco il prete del paese, nei temi di italiano provoco il professore, che intuisco avere simpatie di destra. Un giorno, di ritorno da scuola, in un tentativo di esuberanza adolescenziale volta a chiarificare che bisognava fare i conti anche con la mia opinione ormai, in casa, rispondo al un servizio del telegiornale su un gruppo neofascista: “Crepate merde!” mi sforzo di alzare la voce. E così è la Flora ad alzare la voce più di me come non la sentivo mai fare. È la figlia di un Martire della Resistenza caduto per mano fascista a redarguirmi, a fulminarmi con un’occhiata, a darmi una fondamentale lezione politica. A distruggere ogni retorica e mettere un punto alla questione: “sono uomini”.

Non riuscì a Vittorini(1) di essere altrettanto sintetico e non riesce a me, come è chiaro da questo pezzo. Sono uomini. Uomini i repubblichini che fucilarono l’Antonio. Da bambino li immaginavo come lupi, come creature capaci soltanto di nuocere. Ma erano con ogni probabilità ragazzini abbandonati al selvaggio dolore delle proprie coscienze violate, dagli occhi cavati dall’esaltazione fascista, dalla frustrazione di essere già stati giudicati dalla storia. Uomini. Quale demone sarebbe altrettanto vigliacco? È uomo ogni bruttura svolta in nome di un’ideologia. É nell'uomo il cadavere di Mussolini a piazzale Loreto e poi fatto a pezzi. È uomo ogni atto di Hitler, Pol Pot, Stalin, l’ISIS e i poliziotti della Diaz. E sono uomini anche tutti gli altri, i milioni di testimoni silenti che hanno taciuto in nome della propria sopravvivenza, in nome del proprio interesse. É uomo l'Europa, la cui bandiera è sporcata del sangue dei naufraghi non soccorsi nel Mediterraneo, nel concedere ai leader dei propri stati il potere di farlo. E sono uomo io nell’accettare che queste cose avvengano, perché così fan tutti e probabilmente è nell’ordine delle cose. Ecco perché Salvini chiama "bestie" o con appellativi simili gli assassini. Per mettere in dubbio che tutti siamo uomini. Per rassicurarci che quelle atrocità, lui che è uomo, non le farà mai.

Ha ragione mia nonna ed ha ragione Vittorini (1). É nell’uomo ogni nefandezza, ogni sbaglio che ha causato dolore a un fratello, oltre a ogni sofferenza patita e a ogni voglia di redenzione. Sono nell’uomo l’egoismo e l’istinto di sopravvivenza. Questa presa di coscienza è la Liberazione di cui abbiamo disperato bisogno. Siamo uomini noi e lo sono i fascisti. Questo è ciò che esiste di più amaro. Non da accettare, ma con cui fare i conti. E forse è questa la nostra Resistenza. La dolorosa ombra in noi che va combattuta oggi come settantacinque anni fa.

***

Questo racconto non vuole essere una ricostruzione storiografica dei fatti ma piuttosto una riflessione intima che riguarda la mia infanzia, il rapporto con mia nonna e la storia della mia famiglia.

***

1.         "Noi presumiamo che sia nell’uomo soltanto quello che è sofferto, e che in noi è scontato. Aver fame. Questo diciamo che è nell’uomo. Aver freddo. E uscire dalla fame, lasciare indietro il freddo,respirare l’aria della terra, e averla, avere la terra, gli alberi, i fiumi, il grano, le città, vincere il lupo e guardare in faccia il mondo. Questo diciamo che è nell’uomo.
Avere Iddio disperato dentro, in noi uno spettro, e un vestito appeso dietro la porta. Anche avere dentro Iddio felice. Essere uomo e donna. Essere madre e figli. Tutto questo lo sappiamo, e possiamo dire che è in noi. Ogni cosa che è piangere la sappiamo: diciamo che è in noi. Lo stesso ogni cosa che è ridere: diciamo che è in noi. E ogni cosa che è il furore, dopo il capo chino e il piangere. Diciamo che è il gigante che è in noi.
Ma l’uomo può anche fare senza che vi sia nulla in lui, né patito, né scontato, né fame, né freddo, e noi diciamo che non è l’uomo. Noi lo vediamo. È lo stesso del lupo. Egli attacca e offende. E noi diciamo: questo non è l’uomo. Egli fa con freddezza come fa il lupo. Ma toglie questo che sia l’uomo? Noi non pensiamo che agli offesi. O uomini! O uomo! Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo.
Sangue? Ecco l’uomo.
Lagrime? Ecco l’uomo.
E chi ha offeso che cos’è? Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo. Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo?
Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe?
Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare?
Vorrei fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare?
Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercare di farlo. Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti, fate. Che cosa farebbero?
Un corno, dice mia nonna. Può darsi che Hitler scriverebbe lo stesso quello che ha scritto, e Rosenberg lui pure; o che scriverebbero cretinerie dieci volte peggio. Ma io vorrei vedere, se gli uomini non avessero la possibilità di fare quello che fa Clemm, prendere e spogliare un uomo, darlo in pasto ai cani, io vorrei vedere che cosa accadrebbe nel mondo con le cretinerie di loro."
(E. Vittorini, Uomini e no, Bompiani, Milano 1945)

Commenti