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Siamo in piena campagna elettorale per le elezioni amministrative della città, la puntualità fra i ragazzi non è affatto di casa e ho il tempo di stare con le mani in tasca di fronte alla porta aperta della classe a osservare, dalle finestre del corridoio sul lato orientale dell'edificio, gli attivisti del partito montare il gazebo e scaricare dal bagagliaio di un’Audi Q8 il tavolo in plastica, un paio di sedie da campeggio verdi con la seduta in rete e la sacca per tenere la lattina in fondo al bracciolo, le bandiere blu con la grafica identica a quella della campagna elettorale di Donald Trump che recitano slogan come "Salvini premier - Idee cuore coraggio" "Noi con Salvini - La rivoluzione del buonsenso", l’immancabile cartonato “Stop invasione”.

La puntualità non è di casa fra molti dei ragazzi, dicevo. I pochi che arrivano puntuali aspettano i compagni e l’inizio della lezione in un silenzio tombale, ognuno con il proprio smartphone in mano e gli auricolari nelle orecchie.
La settimana scorsa Malik, un quattordicenne senegalese sulla cui bocca non vedrò per tutto il quadrimestre un’espressione diversa dal sorriso più largo in cui sia mai incappato, si presentò con un’ora e cinquantadue minuti di ritardo a una lezione di due ore. Gli dissi “Buongiorno Malik, ben arrivato!”, i suoi compagni scoppiarono a ridere, alludevano a una ragazza con cui l’avevano visto alla fermata dell’autobus quella mattina. Non smentì nulla, non azzardò alcuna scusa, non sembrava nemmeno percepire di essere in un ritardo da record. Mi rispose con un cenno del capo “Buongiorno prof!” Rincarai la dose: “Malik mi fa piacere vederti a lezione, ti segno presente anche se sei venuto solo per gli ultimi cinque minuti…”, mimando con il cenno di muovere la penna sul registro. "Ah, grazie prof! Grazie!”
Sognatelo, che ti segno presente, Malik.

In classe l’atmosfera è rilassata, anche se io non smetto un istante di pensare che se qualcuno di loro decidesse di rompere le gerarchie, insultare un membro della mia famiglia o scagliarmi una sedia sulla testa, io non avrei la benché minima idea di come reagire e di quali razze di misure adottare.

Il problema non si pone in ogni caso. Le lezioni scorrono piuttosto bene e non ho quasi mai bisogno di alzare la voce, richiamare all’ordine, ribadire quali sono i ruoli. Il mio problema è l’opposto. Ovvero l’apatia. L’assenza di stimoli nei ragazzi, lo smarrimento nei loro occhi riscontrato quando gli chiedo cosa gli piace, che cosa sognano, su cosa gli piacerebbe lavorare durante il laboratorio. Lo smarrimento di chi si trova a rispondere a domande del tutto inedite.

Il compito per oggi è stato scattare una serie di circa dieci fotografie che raccontino il rapporto che i ragazzi hanno con un tema, qualsiasi esso sia, che gli stia molto a cuore.
Ricordo lo sguardo di sfida di quello che nella mia testa ho affettuosamente soprannominato il boss, un ragazzino peruviano con il cappello da baseball New Era nero con la visiera girata sulla nuca e la trap nelle orecchie dirmi: “Io scelgo la droga come tema che mi piace, prof.” Accettai la provocazione, scrissi alla lavagna il suo nome con una freccia verso destra e il titolo del suo progetto: “la droga”. Sgranò gli occhi, incredulo. Le compagne protestarono, dissero che la droga non va bene, che non si può fare una cosa del genere. Gli spiegai che ero lì per vedere le loro foto e non per giudicare, che raccontare il rapporto che si ha con un argomento serve a renderci più consapevoli, a maturare (lo spirito con cui curo questo blog insomma); ma fui interrotto proprio dal trapper che, mano alzata, mi chiese con tutt’altro tono: “Prof, posso cambiare tema e scegliere l’amicizia?”

Maya (nome fittizio) scelse di sviluppare un progetto sul viaggio. Così oggi tira fuori un disegno, dicendo che non sapeva che foto scattare senza potersi spostare e ha preferito usare i pennarelli. Il disegno raffigura quattro persone di colore che scendono da una duna in un deserto senza orizzonte. E’ lei stessa a decidere di alzarsi in piedi e mettersi in mezzo all’aula per spiegare il lavoro.

Attacca a parlare del disegno: “queste persone camminano nel deserto. Fa caldo, caldissimo. Non c’è acqua, non c’è niente lì. Non si può fare altro che camminare e camminare. Vanno a piedi perché la macchina non ce l’hanno più. Sono contenti sai prof, perché è difficile questo viaggio ma a loro non importa perché camminano verso i loro sogni e sanno che quando arriveranno sarà tutto migliore.”

Maya mi dà del tu pur chiamandomi prof, a volte prova a usare il lei ma le frasi diventano lunghissime e le coniugazioni dei verbi in terza persona troppo complesse. Le parole accelerano esponenzialmente man mano che continua il suo monologo, cominciano a scorrerle fuori dalla bocca come acqua di un torrente a primavera.

E’ in piedi, la testa alta, lo sguardo fermo, dritto di fronte a se. Sorride in mezzo alle guance paffute, non si tocca mai le trecce color petrolio che le arrivano alle spalle, come fa quando è più rilassata. Inspira a fondo, la voce non ha trema, nessuna incertezza, nulla di nulla. Passa a parlare del suo viaggio, non più di quello delle persone raffigurate sul foglio. “In Nigeria non si poteva stare, è inutile. Qui un sacco di persone parlano della Nigeria, dicono che non c’è la guerra, ma loro non ci sono mai stati, io dico che in Nigeria non si può stare e basta. Dove abitavo io non si può restare, non c’è nessun modo di restare. Devi credermi. E’ impossibile restare a vivere dove vivevo in Nigeria. Mi piace tanto, tantissimo la Nigeria, la mia casa, ma non era possibile restare, in nessun modo. Allora partiamo. Scappiamo una mattina presto, con la macchina di mio zio, per andare lontano, perché in Nigeria proprio non era possibile restare, in nessun modo. Guidiamo e guidiamo, passiamo dei confini, sempre di notte, un giorno degli uomini ci sparano. In macchina eravamo cinque, ci sparano e dobbiamo scappare a piedi ma tre persone muoiono. C’era tutto il sangue nella macchina. Noi continuiamo a correre e riusciamo a salvarci ma tre muoiono. Muoiono. Rimaniamo in due. Scappiamo. Camminiamo nel deserto per tantissimo tempo, per tantissimi giorni. Nel deserto è pericoloso, ci sono molti uomini pericolosi. Arriviamo i Libia. In Libia era peggio della Nigeria. Tanto peggio, non si può stare in Libia ma ci sono tantissime persone lì che devono scappare. Sono in prigione. Bisogna aiutare quelle persone. In Libia succede una cosa, non importa, non importa comunque ora ho una bambina, ha quasi due anni, è bella, si chiama Hope. Dalla Libia prendiamo una barca, con la mia bambina nella pancia, perché riusciamo a scappare dalla prigione in Libia, perché avevo dei soldi. Prendiamo una barca e attraversiamo il mare ma il viaggio è difficile, molto difficile. Ci sono tantissime persone sulla barca, tutti siamo vicini, avevo paura per la mia bambina, che era nella pancia. Alcune persone sulla barca muoiono. Non potevamo muoverci. La barca era rotta. Poi di notte nel mare sono venuti a salvarci delle persone buonissime, italiane. Ero contenta di essere in Italia. La mia bambina è nata, sta bene. Sono contenta di avere una bambina. Ora vivo nella comunità, non è come vivere a casa, ci sono tante persone, tante donne in difficoltà. Sono contenta perché non tutti hanno la mia fortuna. Non tutti hanno la fortuna di essere vivi dopo che ti hanno sparato, tanti non riescono a scappare dalla Libia perché ci sono le prigioni e molte persone sono cattive. E non tutti hanno la fortuna di vivere in una comunità con persone brave come le signore che mi aiutano alla comunità. A volte è difficile, ci sono tante donne in difficoltà in comunità ma io sono fortunata e cerco di aiutarle e…"

Mentre Maya parla, io le sto affianco in piedi, zitto e fermo come un palo al centro di ventidue banchi dispostiti a quadrato, guardo questa classe, che sembra una batteria di Giochi Senza Frontiere con rappresentanti di nove nazionalità distribuite in undici presenti. Muti come delle pietre, gli occhi bene aperti, ascoltano il racconto della compagna. Non uno sguardo agli smartphone, non uno sbadiglio o una battuta. L’arroganza in autotune ostentata nelle casse bluetooth nello zaino sembra essere rimasta alla fermata dell’autobus. La sento continuare il racconto dei progressi della figlia: quando sono arrivati i primi passi, quando le prime parole. Non posso fare altro che chiedermi quale razza di lezione possa dare a questi figli delle frontiere, io che sono cresciuto a Laveno e la cosa più coraggiosa che ho dovuto fare nel doppio dei loro anni d’età è stata probabilmente telefonare alla madre di Davide Scelsa, in prima media, per reclamare l’NBA Live 1998 masterizzato per Play Station 1, che il figlio si dimenticava sistematicamente di restituirmi a scuola.

Ascolto Maya, la vedo con la sua voce ferma e un sorriso luminoso, incenerire il pietismo che combatto quando sento storie simili alla sua raccontate al telegiornale, non ha più importanza essere in una scuola professionale dell’hinterland milanese o al tribunale dell’Aja. La sento redarguire i leader riuniti a Dublino nel 1990, prendere per un orecchio Gianluca Iannone come un bambino monello, spiegare gli effetti del colonialismo ad Emmanuel Macron, ridicolizzare Salvini per quella mossa infame con la Diciotti e rifiutare un Nobel per la pace a Stoccolma.

Dopo la lezione esco dall’istituto, il militante noiconsalvinista che scaricava l’Audi Q8 ha una stempiatura incipiente evidenziata dai capelli pettinati indietro con il gel, occhiali da sole Ray Ban a goccia come quelli di Tom Cruise in Top Gun e il colletto della polo blu marchiata noiconsalvini ben alzato. Si avvicina con passo deciso per consegnarmi un volantino mentre tutto intorno il mercato è un coacervo di costumi, profumi e dialetti che fanno sembrare la piazza una fiera campionaria dell’antropologia mondiale.

Mentre vago per il mercato con il volantino nella tasca posteriore dei pantaloni penso che forse, in fondo, qualcosa avrei potuto insegnarla oggi in classe. Forse a Maya e ai ragazzi avrei dovuto spiegare di essere sbarcati in un Paese prevalentemente popolato da figli del Gabibbo che vivono in nome dello scandalo, la cui attenzione è attirata solo da chi urla più forte e punta più dita, costruendo capri espiatori da guardare arrostire sul rogo per mano di un boia eletto a furor di popolo.
Forse avrei dovuto concludere la lezione spiegandogli di vivere in un Paese che ha preferito cancellare un passato recentissimo in cui si veniva giustiziati da connazionali sulla porta di casa senza processo e senza preghiere, con l’accusa di avere qualche idea un po’ troppo solidale con chi stava peggio. Forse avrei dovuto spiegargli che la storia del Paese in cui ora vivono è un groviglio di vicende tragicamente simili alle loro ma che nell’affanno di vivere alla grande, anche se con le pezze al culo, si è preferito cementificare nelle fondamenta delle case a schiera la consapevolezza di essere stati fino a ieri degli oppressi sfruttati derisi umiliati stuprati calpestati odiati, e spesso di esserlo ancora. Forse avrei dovuto spiegarglielo, che i bisognosi ci piacciono finché restano tali, che guai a loro se non dimostrano riconoscenza e ambiscono a ciò cui ambiamo noi.

Forse avrei dovuto concludere dicendoglielo, che quello che non tolleriamo di loro qui, è proprio quel vizio del cazzo che hanno di sbatterci in faccia che tutto il nostro accumulare, tutto il nostro affanno tra sedute dallo psicologo e montagne di like ai selfie in spiaggia, il nostro scannarci per due lire, per una casa con un'auto tedesca parcheggiata in garage, un tv lcd e quindici idilliaci giorni di ferie all’anno su un atollo popolato di paesani, alla fine non servono assolutamente a nulla. Che in fondo si può attraversare il mare, come Mosè, solo con i vestiti che si hanno addosso in quel momento e scendere dall’altra parte e – a volte – farlo con il sorriso nonostante tutto. Fingendo che i documenti non servano davvero a chi viaggia da sud verso nord, come succede a chi percorre la tratta inversa.

O forse no. Forse è stato meglio affidare a Maya e ai suoi compagni di scoprire queste cose da soli e per ora lasciarli fintamente convinti che gli italiani tutti sono le persone dell’equipaggio della nave ONG che l’hanno salvata in mezzo al mare e le donne che la ospitano in comunità.

Maya ha scattato la foto che vedete in testa a questo racconto: ritrae un giovane uomo bianco italiano a cui piace autodefinirsi “tendenzialmente di sinistra” come se significasse qualcosa, voltarle le spalle.

Maya e la sua classe sono il modo in cui cerco di guardare all’Italia di domani. Sono la mia opinione sul Regolamento di Dublino, sul caso Aquarius, sul caso Diciotti, sull’attuale governo italiano, sull'operato dell’attuale Ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Commenti

  1. Grazie, ha descritto perfettamente quello che provo e penso anche io quando mi trovo da volontaria con la mia classe di richiedenti asilo. Credo sia importante provare a raccontare, dare a loro la parola così, attraverso la nostra se necessario. Ho provato, tra le varie attività, a invitare i ragazzi a scrivere brevi storie, alcune le abbiamo scritte insieme, brevi episodi di vita vissuta, sono stati momenti importanti e ne sono usciti brevi testi che abbiamo condiviso e usato in incontri con altri. Un'idea come tante, dobbiamo usare la creatività e non fermarci, stare con loro, dare loro parola, Ascoltare.

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