Quel che mostra la luce della steppa.
(Da qualche parte in) Okinskiy rayon – Repubblica della Buriazia – Siberia Orientale – Russia
Tratto dal diario tenuto durante il Servizio Civile Internazionale, in corso.
I
Non ricordo il nome di questa cinquantina di piccole
case di legno con gli infissi dipinti d’azzurro, ognuna circondata
da palizzate ordinate e rustiche. Più che un villaggio, un barlume impolverato di civiltà nelle sconfinate
vallate di steppa. Dalla collina pare quasi più piccolo della casa
di accoglienza per adolescenti che si trova alla sua estremità, dove trascorro il weekend.
Un mastodontico, irreale caseggiato a “U” rosa
chiaro, disposto su tre piani ospita ragazzi tra gli undici
e diciotto anni. Cinquantatre maschi e sei femmine.
A bordo del furgoncino bianco che ci è venuto a prendere all'inizio della strada sterrata, una decina di chilometri più indietro, oltrepassiamo il cancello di
una recinzione nera sormontata da filo spinato, aggiriamo l’edificio ed eccoci
all'entrata pulita e relativamente maestosa.
Mattonelle grigie formano la
piazza di fronte al palazzo, al centro di essa una fontana non
esagerata ma comunque kitsch, esige attenzioni. Affianco al recinto all'interno
del quale ci troviamo, ce n’è un altro in asticelle di legno anch'esse
sormontate da filo spinato. Racchiude un deposito d’acqua posto in cima a
un trabiccolo alto forse sette metri. E’ solo una stupida cisterna ma mi è impossibile non immaginarvi una sentinella all'interno pronta a sparare
su chissà chi. "Guantanamo” alza un sopracciglio Alex (il volontario
tedesco), guardandomi.
Saliamo sei scalini,
attraversiamo le porte di vetro salutando un portiere annoiato davanti a
telecamere a circuito chiuso assai meno affascinanti di quelle della
Rinascente, ed eccoci all'interno. Soffitti altissimi, lampade di luce fredda,
ragazzini si accalcano per presentarsi come se fosse arrivata una qualsiasi
rockstar a far loro visita.
Inusuale sentirsi tanto attesi
da una piccola folla di sconosciuti.
Mentre il personale ci offre tè caldo con latte, pane, burro, marmellata e wafer, la direttrice insiste perché facciamo un tour della struttura. Così, capitanati dalla nostra co-ordinatrice, in prima fila con una reflex Canon pronta a sparare flash ovunque sebbene la sottoesposizione fosse l'ultimo dei problemi, ci lanciamo alla visita di: refettorio, palestra, campo interno di basket e calcetto, aree comuni, campetti e parco giochi esterni, sale tv, cucine, bagni e camere da letto.
Mentre il personale ci offre tè caldo con latte, pane, burro, marmellata e wafer, la direttrice insiste perché facciamo un tour della struttura. Così, capitanati dalla nostra co-ordinatrice, in prima fila con una reflex Canon pronta a sparare flash ovunque sebbene la sottoesposizione fosse l'ultimo dei problemi, ci lanciamo alla visita di: refettorio, palestra, campo interno di basket e calcetto, aree comuni, campetti e parco giochi esterni, sale tv, cucine, bagni e camere da letto.
Nei corridoi su bacheche di
legno sono ordinatamente appesi disegni degli ospiti. La gamma di soggetti non è purtroppo
molto vasta: carri armati che sparano, carri armati che non sparano, soldati sanguinanti, soldati sorridenti, soldati sanguinanti e sorridenti, fucili, pistole, kalashnikov, bombe,
missili, bandiere.
Gli educatori raccontano che
nel tempo libero, le attività principali dei ragazzi sono il pugilato, il
bodybuilding, un po’ di calcio e svariati stili di ozio. Hanno tavoli da ping pong, computer, televisori lcd, impianti home theatre, videogiochi, poltroncine Sacco e una vasca di boccette in plastica in cui ci si può tuffare prendendo la rincorsa illuminati da luci blu al neon. Non avvisto alcun libro, o strumento musicale, o cavalletto o arnese che possa servire per dipingere, scolpire o simili. Nè laboratori di falegnameria o meccanica o altro.
Vengo informato che questo è
un orfanotrofio di livello molto alto, rispetto alla media, attrezzato di tutti gli svaghi eccetera.
Finalmente termina il giro di
ricognizione e posso smettere di fare irruzione nella privacy altrui
con la mia squadriglia umanitaria.
Presto mi trovo un pallone tra
le caviglie e ho la sensazione che quello è il modo in cui trascorrerò le successive
trenta ore. Non sbagliavo. Mentre tento di fare qualche palleggio con i più
giovani degli ospiti nel campo interno di calcetto, intorno altri si allenano con i pesi e a tirare cazzotti. Si danno consigli a vicenda su mosse, pugni e postura. In fondo al campo invece ci si esercita con i pesi. La vista di un
ragazzetto che mi arriva forse alle costole, sollevare con dedizione un
bilanciere enorme mi impressiona leggermente ma ho una partita da giocare su cui concentrarmi.
Dopo pranzo la direttrice
davanti a due dozzine dei ragazzi dice a voce molto alta che adesso Matteo gli
parlerà del paese da dove viene.
"Ciao! Sono Matteo e
vengo dall'Italia!"
Silenzio.
"Qualcuno conosce
l'Italia?”
Silenzio.
"Qualcuno sa qual è
capitale dell’Italia?"
Silenzio. Poi mentre sto per
perdere le speranze, Dima (nome
fittizio), un quattordicenne con capelli castani, sguardo irrequieto e braccia e mani molto tatuate, con convinzione azzarda un “Cile!?”
"Beh l'italia è piccina
ma ci sono il mare, le montagne e le colline
e Venezia, Roma e Milano...
e la pasta, la pizza, Leonardo Da Vinci, Caravaggio..."
Silenzio.
Non ho il minimo impatto sui
loro occhi nonostante mi dimeni tra sorrisi ed entusiasmo. Uno di loro indossa
una felpa del Milan forse degli anni Novanta, altri due recenti
maglie dell’Inter e nelle camere ho visto molti poster di calciatori.
"Io sono di Milano, dove
ci sono il Milan e l'Inter,
El Shaarawi, Balotelli, Thiago Motta…"
El Shaarawi, Balotelli, Thiago Motta…"
Silenzio.
“E l’Italia ha vinto i
mondiali nel 2006!
Cannavaro, Totti, Del Piero…”
Cannavaro, Totti, Del Piero…”
Silenzio.
Il calcio non sembra poi
essere questo così accattivante stimolo.
Poi la direttrice finge
interesse e le racconto cosa significa per noi il 25 aprile, condisco con
qualche battuta sul presente volontario tedesco e mi libero dell’imbarazzo.
Raggiungo uno degli educatori
in pausa sigaretta. Lo ringrazio per la calorosa accoglienza e con l’aiuto di
Alex, il quale parla un ottimo russo, gli chiedo qual è la prospettiva dei ragazzi una
volta maggiorenni, quando lasceranno la struttura smettendo di essere sotto la
“protezione” dello stato.
Aspira leggermente più fumo del solito:
“Drink vodka.”
II
Sasha (nome fittizio) a pranzo si dimostra piuttosto incuriosito dal sottoscritto, passiamo molto tempo insieme tra una partita di calcio, la merenda e altre
partite di calcio.
Ha dodici anni, biondo,
piuttosto alto, un buon controllo di palla, occhi svegli ma pacati. Gli piace sedersi a tavola con gli
adulti, ascoltare me e Alex parlare inglese, domanda il perché di questo e
quello con sincera curiosità. Chiede in continuazione di usare la mia
macchina fotografica. La tiene con cura e si impegna nel cercare inquadrature.
Mentre aspettiamo il tè
pomeridiano, si mette a disegnare su un tovagliolo con un pennarello verde
trovato per terra. Si accorge che lo sto guardando, sforzo un sorriso ma
straccia con frenesia il disegno.
Era una bottiglia di un
alcoolico, in mezzo a due mitra, kalashnikov o qualcosa di simile.
Dopo cena ho un gran bisogno
di fare due passi in silenzio e respirare aria fresca. Mi segue e giochiamo a
calcio nella brezza serale della steppa. Oltre la recinzione mandrie di vacche pascolano nella prateria incredibile e punteggiata di spazzatura e cavalli selvaggi smagriti corrono sagomati dal tramonto. La luce orizzontale indurisce le ombre, sottolinea i contrasti, le inadeguatezze, i tratti grotteschi della realtà.
Sasha mi racconta di essere
cresciuto nell'orfanotrofio di Malyshok, la struttura dove lavoro durante la
settimana a Ulan Ude, in città. Ha passato la sua intera giovane vita in strutture pubbliche dai corridoi enormi e odorosi di detersivo e minestra,
vivendo in gruppo con coetanei, con rari momenti di silenzio e sporadiche occasioni di avere l’attenzione
di un adulto tutta per se.
Ha aspettato per tutto questo tempo una richiesta di adozione che non è mai arrivata. Si sono prese cura di lui solo persone che lo facessero per lavoro, scandite dai turni, dagli appalti eccetera. E uno di questi sono io.
Un altro venuto da chissà dove a fortificarsi l'autostima, a trascorrere mezza giornata giocando a pallone per raccontarlo poi in patria tra lo stupore dei conoscenti. A mettergli un braccio intorno alle spalle e pretendere che sorridesse quel pomeriggio. Un altro che dalla vita ha avuto tutto senza nemmeno il bisogno di chiederlo, è venuto a esigere che avesse fiducia negli umani e nel futuro. A organizzare giochi di gruppo e pretendere entusiasmo.
Ha aspettato per tutto questo tempo una richiesta di adozione che non è mai arrivata. Si sono prese cura di lui solo persone che lo facessero per lavoro, scandite dai turni, dagli appalti eccetera. E uno di questi sono io.
Un altro venuto da chissà dove a fortificarsi l'autostima, a trascorrere mezza giornata giocando a pallone per raccontarlo poi in patria tra lo stupore dei conoscenti. A mettergli un braccio intorno alle spalle e pretendere che sorridesse quel pomeriggio. Un altro che dalla vita ha avuto tutto senza nemmeno il bisogno di chiederlo, è venuto a esigere che avesse fiducia negli umani e nel futuro. A organizzare giochi di gruppo e pretendere entusiasmo.
Un altro
sparito il mattino dopo sul furgoncino bianco prima che si svegliasse, così da
evitarsi lo spiacevole inconveniente dei saluti.
Ma Sasha appare sui gradini
dell’ingresso con il pallone logoro sotto il braccio. Sventola la mano libera e
accenna qualcosa di simile a un sorriso, mentre il conducente avvia il motore e fa manovra intorno alla fontana in una domenica
mattina per qualcuno soleggiata, per qualcun'altro infame.
Ricambio.
E il cortile di quella struttura enorme e assurda, con un ragazzino biondo in ciabatte e calzettoni
dell’Inter all'ingresso, si dissolve nella polvere.
"Un altro venuto da chissà dove a trascorrere mezza giornata giocando a pallone nella luce del tramonto, a mettergli un braccio intorno alle spalle, a pretendere che sorridesse quel pomeriggio, che non fosse violento ma socievole. Un altro che dalla vita ha avuto tutto senza bisogno di chiederlo è venuto a esigere che avesse fiducia negli umani e nel futuro."
RispondiEliminaCosì triste..ma il tuo sguardo sulle cose è profondo. E bello.
Matteo hai scritto con il cuore cercando di trasmetterci emozioni di un mondo lontano attraverso la sofferenza di questi ragazzi.La paura di essere solo meteora che attraversa le loro vite senza lasciare traccia è giustificata,lecita,ma forse prematura.Coraggio.Vedrai che al termine del viaggio non ti sentirai "un altro venuto da chissà dove solo per fortificare l'autostima..." Questo è il mio augurio
RispondiEliminaWalter
Ciao Walter,
Eliminagrazie delle tue parole.
A presto